ENG

percorso di navigazione

Chiesa di Sant'Agata

Per una prima analisi della Chiesa di Sant’Agata, vi rimandiamo alla pagina che in questo sito la descrive all’interno dell’itinerario storico che abbiamo costruito della vicenda artistica di Eli Riva: Sant’Agata appartiene agli anni ‘60.
Qui, nel prendere in considerazione in modo tematico le tre chiese postconciliari in cui Riva è intervenuto, vi proponiamo dapprima lo studio comparato di Gianluca Bertani, che mette Sant’Agata di Riva in relazione a due chiese realizzate da altri scultori, Edgardo Mannucci  e Giancarlo Marchese. Tre chiese che Bertani scelse come le migliori dopo una ricognizione realizzata attraverso tutte le nuove chiese italiane.

Gianluca Bertani:  “Interventi di scultori contemporanei in edifici sacri
Pubblicato in “Rivista Internazionale di Arte Sacra e Liturgica”, n. 700, 1984
(articolo segnalato dalla CEI)

“L’odierno interesse verso l’arte religiosa, sacra e liturgica in Italia è abbastanza vivo, ma presenta alcuni  problemi. Infatti, se altrove le arti religiosa, sacra e liturgica, oltre che documentate da centri ad esse appositamente preposti, cercano per lo più di evitare binari convenzionali e formalmente ripetitivi, da noi, invece, non di rado, l’iconografia sacra verte su di una figurazione replicata, che cerca la traduzione del messaggio in una presenza indubbiamente reale, verosimile, compresa e percepita in modo diretto dal fruitore.
Vengono qui presentate invece alcune esperienze di artisti che, avendo adottato nel loro usuale lavoro modi legati all’arte informale, all’avanguardia, all’astrattismo, all’arte concettuale, cercano di applicare anche all’arte sacra le caratteristiche di linguaggio a loro congeniali.
Analizzeremo qui le opere degli scultori Eli Riva, Edgardo Mannucci e Giancarlo Marchese, tenendo presenti le linee d’indagine volute e seguite dagli stessi artisti, e soprattutto il loro voler realizzare il valore religioso in forme autonome.

ELI RIVA

Per Eli Riva la scultura anche nel sacro è volta alla nudità, al rigoroso, all’essenziale. Più che di altre operazioni di minore portata, si vuole qui riferire del cospicuo intervento del 1967 nella chiesa di S. Agata a Como. (FOTO)
La costruzione, divisa in due aule liturgiche di differenti dimensioni, ma architettonicamente simili, ha visto fin dall’inizio una concordanza di soluzioni fra architetto (Lucio Saibene), scultore e parroco (Don Giovanni Valassina) per la creazione di un organismo stilisticamente omogeneo. Prendendo in esame una campionatura di esempi francesi come primo riferimento su cui modellare la propria idea, comunque genuina e originale, i progettisti hanno voluto ottenere un ambiente, anzi un’atmosfera, coerente in tutta l’opera, determinata da ogni singola componente che deve contribuire a questo risultato: murature, copertura, arredo, vetrate, finiture, arredi, colorazione degli intonaci, verniciature. Si è così verificata una situazione ottimale di accordi e d’intenti per operare e produrre. Anche le vetrate di Riva non si possono leggere se non nell’intonazione dell’ambiente; così come l’arredo che nasce dalla sua arte scultorea benché rimanga in essa marginale.
L’attività dell’artista, infatti, dopo un inizio figurativo si è indirizzata verso forme sempre più accentranti, fino ad arrivare alla formulazione d’un proprio modulo, d’una scultura che cerca di rinchiudersi, di involversi in se stessa, di compenetrarsi; un’opera che vive dal di dentro, un ritorno all’interno della scultura; da decenni l’artista persegue questa ricerca d’una struttura univoca e rigeneratrice, che simbolizzi il significato non solo dell’arte ma della vita. Qui invece la scultura di Riva non è forma che significhi e comprenda, ma forma che serva e funzioni, un atto di presenza religiosa e di servizio liturgico; con quali metodi lo si può efficacemente evidenziare dettagliando l’analisi.
In entrambi gli ambienti si mantiene la distinzione tra altare e ambone assimilati come mensa del “pane” e della “parola”; nell’aula maggiore (FOTO) la separazione è fisica con due sagome che si richiamano l’una all’altra attraverso una stilizzazione rigorosa, nell’aula feriale (FOTO) gli elementi sono uniti, ma è segnalata la cesura con un leggero dislivello delle due mense; il porta-cero segue e ricalca le linee del vicino fonte battesimale (100 x 60 cm, marmo di Carrara FOTO). Sulla parete in comune tra le due aule la porticina del tabernacolo conduce al “mistero del Corpo” tramite una tormentata serie di diagonali, a significare l’ansia della ricerca cristiana; i due portalampade (60 x 35 cm, bronzo FOTO) e l’acquasantiera costituiscono, al contrario, la parte dell’intervento di Riva più aderente alla sua tematica abituale, poiché formati da compenetrazioni di moduli con funzioni di sostegno, ora della luce (lampada) ora della purificazione (contenitore).
Le vetrate, presenti in entrambe le aule, mediante un tenue bicolore hanno l’esclusivo compito di moderare e diffondere l’afflusso di luminosità, senza voler attirare l’attenzione su di sé;  cosicché mentre gli arredi si permeano al carattere austero e rigoroso dell’ambiente, le vetrate intervengono direttamente, per cercare il clima necessario ad ottenere e mantenere l’attenzione verso il sacrificio in atto.” (FOTO)



E
ora il testo di una piccola monografia letteraria, su Sant’Agata, dal titolo “La nostra chiesa”, scritta da Angela Maria Bernaschina poco dopo la consacrazione dell’edificio.

LA NOSTRA CHIESA”

(…..)
LE VETRATE”          “E’ in Te la sorgente della vita, alla tua luce vediamo la luce” (Salmo 35, 10)

Dalle grandi vetrate, “pareti di vetro puro”, la luce irrompe nello spazio bianco in cui ci raduniamo a pregare, investe il marmo degli altari, trae bagliori dal tabernacolo.
Penso al prezioso significato della vetrata medioevale, che narrava la Bibbia ed era carica di simbolismo, e penso al messaggio perenne dell’arte, capace di trasportarci “dalle cose materiali a quelle immateriali”.
Anche le vetrate di Sant’Agata, che sono opera di un artista, Eli Riva, parlano allo spirito e ci aiutano a guardare al di là delle apparenze. Anche per esse è vera la frase di Pierre de Roissy, cancelliere della scuola di Chartres, all’inizio del 1200: “Le finestre dipinte sono delle scritture divine, perché versano la luce del vero sole, cioè di Dio, all’interno della chiesa, vale a dire nei cuori dei fedeli, illuminandoli”.
Nelle antiche basiliche e nelle grandi cattedrali orientate (come Sant’Abbondio), la luce solare, che entra all’aurora dalle finestre dell’abside e via via lungo la giornata da quelle del lato sud, fino ad illuminare al tramonto i vetri della facciata, è chiaro simbolo di Cristo, che ci accompagna per tutta la nostra vita.
Nella chiesa di Sant’Agata è bello e significativo il fatto che si illuminino, il mattino, le vetrate della grande aula dove nel giorno del Signore di celebra l’Eucarestia, dove i bambini ricevono il Battesimo, sacramento della illuminazione cristiana, dove salutiamo i nostri morti, giunti al giorno eterno di Dio; e la dolce luce pomeridiana filtri invece dalle più umbratili vetrate della cappella, luogo della sosta, del raccoglimento, della recita dei Vespri.
Il linguaggio simbolico delle nostre vetrate è dunque molto ricco. Il disegno, il cui profilo nero è la forte sottolineatura di una forma che si fa idea, è vagamente ispirato al frutto del melograno, presente nel tempio ebraico e nell’arte sacra cristiana. La melagrana, con gli innumerevoli suoi semi racchiusi in un unico frutto, simboleggia la fecondità spirituale del popolo di Dio, e anche la comunità, che è unità dei credenti.
Sette per la chiesa grande e quattro per la piccola  - numeri biblici per eccellenza – le vetrate si assomigliano, ma nessuna è uguale all’altra. Questo, come le asimmetrie e le difformità del romanico, può farci pensare alla “grande fantasia di Dio, che non si ripete mai ed è sempre nuova”, e può anche ricordarci i Salmi, che esprimono la stessa lode e la stessa supplica a Dio con continue variazioni.
I colori, nero e giallo, sono quelli del ferro e dell’oro, dell’onice e del topazio: metalli durevoli, pietre preziose, tenebra e luce.
Sono, per così dire, i colori dell’umana esistenza, in cui si alternano zone di ombra e spazi chiari, strisce scure e vividi raggi.
Ma “senza la luce che la attraversa  che fa splendere la sua materia, la vetrata è silenziosa e inerte”.
Così noi solo dalla grazia del Signore siamo risvegliati, solo dalla sua luce riceviamo luce.

I MARMI”                                                                    “… grideranno le pietre” (Luca 19, 40)

I marmi di Eli Riva in Sant’Agata  - acquasantiera, altari, ambone e battistero  - poggiano sul grigio pavimento di beola con la solidità della roccia e la dignità dell’opera d’arte: eloquenti simboli per la nostra fede.
L’acquasantiera, che si incontra entrando dalla porta principale, costituisce, nel suo isolamento, un invito e una promessa: “Attingete acqua con gioia alle sorgenti della salvezza” (Isaia 12, 3). E’ scolpita nella pietra verde delle Alpi, il cui colore scuro, in contrasto con il candore delle altre sculture, conviene al carattere penitenziale del segno di croce con l’acqua benedetta. Ci accostiamo al tempio del Signore con tutte le nostre ombre e abbiamo bisogno del lavacro della sua grazia: “Lavami da tutte le mie colpe… Purificami con issopo…” (Salmi 50, 4:9). La forma richiama quella del bicchiere a incastro, di alluminio, che si usava una volta portare nello zaino; bicchiere che accompagnava il viandante e si riempiva d’acqua per la sua sete. Comincia così il nostro andare verso l’interno della chiesa, dove ci attende Cristo con i sacramenti della salvezza: “Chi ha sete, venga a me e beva” (Giovanni  7, 37).
Gli altari, l’ambone e il battistero sono in marmo di Carrara, il marmo caro a Michelangelo, dalla straordinaria luminosità che sembra scaturire dalle sue stesse vene e che risplende qui nella levigatezza delle superfici. Con armoniosa scansione dello spazio, le sculture si succedono nella chiesa grande su piani progressivamente elevati. Più in basso è il battistero, primo luogo dell’iniziazione cristiana; un po’ più in alto l’ambone, dove viene proclamata la Parola, e infine, in posizione eminente, l’altare, dove è celebrato il memoriale della morte e risurrezione del Signore. E’ il cammino dei cristiani, dal Battesimo all’Eucaristia, attraverso l’ascolto della Parola di Dio.
Il battistero, con l’essenzialità di un disegno astratto, riconduce alla simbologia dell’acqua presente nel Vangelo. L’incavo quadrato nel pavimento accenna ad una vasca: “Va’ a lavarti nella piscina di Siloe” (Giovanni 9, 7). Lo sovrasta una scultura, scavata come roccia che si fende per lasciar sgorgare “fiumi di acqua viva” (Giovanni 7, 38). Questa struttura aperta indica anche accoglienza. L’accoglienza di Gesù alla Samaritana presso il pozzo di Sicar: “chi beve dell’acqua che io gli darò non avrà mai più sete” (Giovanni 4, 14); l’accoglienza della Chiesa a coloro che nel Battesimo rinascono “dall’acqua e dallo Spirito Santo”; e, poiché nella nostra parrocchia ogni defunto viene portato per le esequie al fonte battesimale, l’accoglienza di Cristo a chi ha creduto in Lui: “l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna” (Giovanni 4, 14).
L’ambone e l’altare hanno una forma geometrica, ma irregolare e spezzata quale è quella del pane che è stato diviso : “Gesù prese il pane…lo spezzò e lo diede ai discepoli” (Matteo 26, 26). Anche la Scrittura è nutrimento, pane. “Quando mi spezzi il pane della Scrittura, nella frazione del pane ti fai riconoscere”, diceva nella sua preghiera un monaco del XII secolo, Guido il Certosino. E i padri conciliari affermano: “Cristo è presente nella sua Parola, giacché è Lui che parla quando nella Chiesa si legge la Sacra Scrittura”. Per questo l’ambone o mensa della Parola prelude, nella collocazione e nella forma, alla mensa dell’Eucarestia, l’altare del Corpo e del Sangue di Cristo.
Nella cappella le due mense formano un blocco unico, possente e lieve insieme. La parte riservata alle Letture è frontalmente avanzata e appare un poco più oscura rispetto all’altra, come è l’annuncio rispetto al compimento. Durante la celebrazione, qui e nella chiesa grande, si stagliano nitidamente sopra l’altare la patena e il calice, segni liturgici della Cena del Signore.
Senza costruzioni intorno, senza fregi e ornamenti, sullo sfondo di una parete spoglia, i marmi della nostra chiesa dicono la centralità di Cristo, Fonte viva, Parola di Dio, Pane spezzato per noi.

I BRONZI”                                                           “Davanti a Te, Signore” (Liturgia del IV secolo)

Quando entriamo nella chiesa vuota, al di fuori degli orari delle celebrazioni, il nostro sguardo si posa facilmente sulle lampade che ardono, nell’aula grande e nella cappella, davanti all’unico tabernacolo.
La fiamma silenziosa e perenne, indicante nelle chiese cattoliche la presenza del Pane eucaristico, sembra esprimere la preghiera che dal cuore di uomini sparsi su tutta la terra sale ininterrottamente a Dio. E’ giusto che il suo supporto, come gli altri arredi che stanno nella casa del Signore, abbia la “nobile bellezza” di cui parla la costituzione conciliare sulla liturgia.
Mi tornano alla mente le solenni prescrizioni che troviamo nell’ultima parte dell’Esodo a proposito delle suppellettili da collocare nella tenda, luogo della dimora di Jahvè in mezzo al suo popolo (Esodo 35, 4-19; 40, 1-11).
Nella chiesa di Sant’Agata i due porta-lampada, il sostegno del cero pasquale, il candelabro (anche un candelabro più piccolo che fu rubato) e la porta del tabernacolo nella cappella sono bronzi di Eli Riva: opere d’arte, dunque, e in quanto tali da rileggere e da riscoprire sempre.
Il bronzo, lega di rame e stagno, ha accompagnato le vicende dell’umanità fin dalla preistoria. Nella parte dell’Esodo ricordata sopra e in altri passi della Bibbia sono descritti oggetti di rame o bronzo destinati al culto; e tutti conoscono il fascino di questo metallo nelle sculture di ogni epoca.
Nei porta-lampada, che sostengono il lume e fanno tutt’uno con esso, il metallo pare acquisti la docilità e la morbidezza di una pergamena che si sta svolgendo. Sulla pergamena erano anticamente scritti i Libri sacri, la Parola di Dio che ascoltiamo e preghiamo nella Chiesa.
“Lampada per i miei passi è la tua parola” (Salmo 118, 105).
Il grande, bellissimo, candelabro, modulata base delle cinque candele che vengono accese per la celebrazione della Eucaristia, è invece simile a fogli dispiegati. Nel Cristo risorto le Scritture si compiono e si rivelano.
“Egli, come ai discepoli di Emmaus, ci svela il senso delle Scritture e spezza il pane per noi” (Preghiera eucaristica).
Di fianco al battistero sta il porta-cero, dove nelle notte di Pasqua è posto il cero, simbolo di Cristo luce del mondo, principio e fine, alfa ed omega. Il porta-cero si allarga verso la terra e si innalza verso l’alto, nelle due direzioni dell’Ascensione: mistero del Signore Gesù che sale al cielo ma continua a operare con i suoi (cfr. Marco, 1, 19-20).
Ed ecco che siamo ricondotti al tabernacolo e alla sua porta in bronzo dorato nella chiesa piccola. Al centro della forma concava, come appare il cielo sopra di noi, è un incavo profondo; ad esso convergono linee che delimitano piani diversamente inclinati, sui quali la luce diversamente si rifrange. Di materia e luce, mi disse un giorno Eli Riva, è fatta una scultura.
Davanti a questo tabernacolo, dove la preghiera segue il ritmo pacato della cera che si consuma, della fiammella che emana il suo quieto splendore, penso alle infinite strade che conducono a Cristo, e insieme ai luminosi raggi della grazia, del soccorso, della salvezza che da Lui scaturiscono.
Qui, nel tabernacolo, è il segno della sua presenza, qui è il pegno del suo ritorno, quando verrà nella gloria e noi vedremo il suo volto.
Fa’, o Signore, che possiamo venirti incontro con le nostre lampade accese.

  Al termine delle mie riflessioni sulla nostra chiesa voglio ricordare tutti quelli che l’attesero e la desiderarono, che vi lavorarono, che con le loro umili e generose offerte ne resero possibile la costruzione. E voglio dire grazie, sicura di poterlo fare a nome di tutti i parrocchiani, al nostro Parroco Don Giovanni Valassina, al cui pensiero e impegno principalmente si deve l’esistenza della chiesa di Sant’Agata in Como, giovane chiesa del nostro tempo.

Angela Bernaschina




LE VETRATE: “POST-SCRIPTUM”

E' interessante notare che Eli Riva le aveva concepite astratte. Prima ancora, le aveva pensate non dipinte, ma... scultoree, a blocco unico di vetro, o cristallo. Chi scrive l'aveva accompagnato a Murano (Venezia), dove, con i bravi artigiani del vetro, Riva aveva approntato il prototipo, che la famiglia conserva nella casa-museo.


Foto G.Buscema


Non venne accettato dalla commissione santagatese, per le difficoltà tecniche della messa in opera e per la difficoltà della pulitura, date le molte modulazione plastiche dell'opera.
Ripiegò allora sulla vetrata classica, a colore e a contorni in piombo, ma ancora partendo da una concezione astratta, come è visibile nei numerosi disegni preparatori (dei quali è dato qui sotto un saggio), per approdare infine al figurativo, secondo il volere della committenza. Riva allora attingendo all'iconografia biblica che ben conosceva, essendo suo personale patrimonio spirituale e culturale, precisò il soggetto nell'immagine del melograno (come descritto nel saggio di Angela Bernaschina).