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Scultura Seriale - Terzo Astratto
"Arfalle", dal 1975


SCULTURA SERIALE: PREAMBOLO
Abbiamo lasciato l’astratto di Riva negli anni ’60.
Erano opere di grande rilievo, eseguite fra il 1965 e il 1968: le chiameremo secondo astratto, avendo invece chiamato primo astratto, o di rottura, le “Piastre” del 1956.
Erano opere di grande rilievo, pezzi unici, tutti in marmo, tutti levigati e, come già ricordato più volte, tutti scolpiti a mano “a taglio diretto”. Ogni scultura aveva un nome, un titolo, e soprattutto, ogni scultura incarnava un’idea. Questo felice periodo si concluse con la mostra personale alla Galleria Pianella di Cantù nel 1968.

Gli anni ’60 furono densi anche di lavori di committenza: un lungo elenco, di opere per lo più figurative e rispondenti a quel processo di consumazione della figura umana a cui abbiamo accennato, culminante nella “Via Crucis” della chiesa del cimitero di Monte Olimpino (1964, Como) e nel portale della Chiesa Arcipretale di Chiasso (1967, Svizzera Italiana).

Passò qualche anno da queste due ultime opere. Riva trascorse lunghi mesi a disegnare dicendo: “non sono più capace di scolpire”. Questo si ripeteva ogni volta che egli esauriva un’esperienza importante; il disegno aveva per lui, forse inconsapevolmente, la funzione di terreno di ricerca: gli sembrava di perdere tempo, rispetto alla scultura, mentre si trattava di un lavoro di messa a punto delle idee che successivamente sfociavano in una nuova fase creativa.


Nel 1975, ancora una volta,“nasce un Riva nuovo” (Luciano Caramel), ora completamente e definitivamente astratto. Una ricerca che proseguirà fino agli anni 2000, definendosi in vari episodi che sono, nell’ordine: le “Arfalle”, i “Moduli”, i “Rotori”, i “Verticali”, le “Fionde”, i “Cancelli”, fino alle ultime “Case degli Angeli”.
“Opere che nel loro insieme definiscono una linea progressiva di evoluzione continua e coerente.
Ma questa volta, nel 1975, Riva sembra voler cambiare le regole del ‘fare arte’”(Luciano Caramel).
E' una modalità creativa che chiameremo seriale, o modulare (e che proseguirà fino agli anni 2000). Si tratta della ripetizione di un’idea forte in forme sempre diverse, “iterazione modulare affidata a sottili variazioni condotte sul filo di ricorrenti paranomasie” (Rossano Nistri, in “Attraverso la scultura del nostro secolo: Eli Riva”). Non più pezzi unici, come nell’astratto degli anni ’60, ma varianti di un’idea-base, una sorta di archetipo. Immagini nascenti e derivanti una dall’altra, secondo una logica di filiazione continua, ma sempre in forma unica e diversa.
Che cosa determinava, allora, l’opera, se l’idea era sempre la stessa? La qualità del materiale, la forma o la dimensione del pezzo, magari occasionalmente trovato, il colore, certo, e l’intuizione del giorno.

 

LE ARFALLE

Marmi bianchi, verdi, neri, grigi, rosati, venati, monocromi o screziati, ocra pallido.
Una grande parete verticale, quasi una cattedrale



Un andamento molle e rasoterra


Un andamento rigido


Una camminata lunga, discorsiva e irregolare



R
iva stesso racconta la genesi delle “Arfalle” e come è nato il prototipo: “Ero seduto, assorto per trovare un’idea, un’idea che mi servisse per un concorso cui avrei partecipato…”
Stava pensando, profondamente attento, o forse profondamente senza pensiero (le idee buone vengono sovente dal non-pensiero).
Cadde lo sguardo sulle sue mani, appoggiate con i gomiti sulle ginocchia, e sulle dita incrociate: mani in preghiera.
Immediata fu la ‘visione’.




Raccolse a pacco una lastra di cera, congiungendone i lembi dopo averli piegati obliquamente all’insù e lasciando a terra una stretta base. Formò in definitiva una grossa borsa, o valigia, che racchiudesse forse i suoi pensieri. Sulla cucitura modulò la forma delle sue dita incrociate. E fu la prima “Arfalla”.

La cresta, e cioè la cucitura delle pareti oblique, è sempre il motivo delle dita incrociate e in preghiera.


Nel laboratorio di via Masaccio c’è il calco della sua mano, che pochi hanno visto.
Rossano Nistri dice a proposito delle “Arfalle” nel già citato “Attraverso la scultura del nostro secolo: Eli Riva”: “La concentrazione luminosa e spaziale che scandisce l’intrecciarsi delle dita di una mano con l’altra (preghiera o resistenza?) ritrova, a distanza di oltre vent’anni, una sua essenziale formulazione figurativa nel gesto delle mani che assorbe buona parte della dinamica dell’effige bronzea del Papa Odescalchi, realizzata nel 1994 e collocata a Como nella via omonima”.

Dalla prima “Arfalla”, dal prototipo, nascono, come accennato, le varianti, perseguendo l’eleganza e la raffinatezza di un’ascendenza ionica.
Il motivo delle mani si allunga, si abbassa e abbraccia tutta l’opera.


Oppure l’opera si dilata




Vedi Galleria


Si raddoppia,
secondo una  personale, specifica, soluzione ideale di scultura che Riva chiamava “bivolume” e che è possibile ritrovare anche nel figurativo, ad esempio nelle “Due Teste”.




Piccoli gioielli come l’Arfalla di marmo nero chiamata “Zolla”,


o quella impostata sulla distensione parietale per rispettare ed evidenziare il valore intrinseco del marmo, il colore, verde venato.


E le varianti sono innumerevoli, nel loro contorcersi, ondeggiare, distendersi, subire rotazione, lucide od opache, ma tutte levigate: tutto ciò che si può fare con il disegno Riva lo produceva in marmo.
Aveva la capacità di ‘vedere dentro’ il marmo, di intuire l’immagine direttamente all’interno della materia, perciò lavorava senza bozzetti preparatori, come già detto altrove.

Sempre, nel mamo, persegue l’eleganza e la raffinatezza. Marmi bianchi, neri, verdi, venati, ocra pallido… penso che andasse a ricuperare blocchi di scarto avanzati dai marmisti. Diceva: “Il bronzo costa troppo, se lavoro in marmo risparmio, se no non mi tornano i conti … ”
Certo, non faceva sbozzare nulla a Carrara, come invece è pratica comune tra gli scultori.

Le “Arfalle” furono esposte alla galleria Mosaico di Chiasso (Svizzera Italiana) nel 1976. Citiamo dalla presentazione scritta da Gino Macconi per la mostra: “Il gruppo di opere che viene presentato in questa mostra costituisce un compendio di quasi tutta la sua produzione plastica e grafica (…). L’immagine di Eli Riva acquista, attraverso una lunga disciplina, una dignità espressiva rigorosa, assoluta, diversa e lontana dagli infiniti schemi proposti dai contemporanei. Le “Due Teste” del 1950 sono un inizio importante. Lo stesso rigore si ritrova nelle opere più recenti, scavate e leggere, dove i materiali assumono una nobiltà nuova, indiscutibile e affascinante in cui non è possibile rinvenire alcun compiacimento formale, bensì una strutturazione scattante e in continua tensione, un’ansia nello svolgersi della forma che non ha vuoti, non ha cedimenti. Ritengo che proprio in questi lavori Riva abbia raggiunto il suo risultato più importante: qui dove il materiale non è più usato in quanto tale, dove la pietra non è più pietra ma solo mezzo, pretesto per creare una forma assoluta, astratta e viva.”





N
otiamo che per ogni produzione che Riva considerava importante, a conclusione di un periodo intenso di lavoro e per ripartire con altra ‘ricerca’, per una nuova avventura, l’autore facesse una mostra personale. Nel 1976 per le "Arfalle", e così sarà anche per i “Moduli”, grandi moduli in legno a Uggiate Trevano nel 1981; ancora per i moduli in marmo e in legno alla Galleria Visconti di Lecco nel 1978; così per i “Rotori”, che seguiranno immediatamente i “Moduli”, alla Galleria “La Colonna” nel 1980.
E così aveva fatto a Milano nel 1953 alla Galleria Bergamini di via Senato, con quel suo figurativo essenziale di inizio anni ’50 (le “Due Teste”) e con le ceramiche; così nel 1968 alla Galleria Pianella di Cantù già citata.
La mostra del 1991 nella chiesa di San Pietro in Atrio (Como), voluta dall’amministrazione comunale per il settantesimo compleanno dell’artista, è invece una antologica.










Se per le “Arfalle” aveva fornito lui stesso la chiave interpretativa delle opere e la storia della loro nascita, con l’autentico racconto delle sue mani in preghiera, da quel momento in poi cercare un significato simbolico dietro la sostanza dell’opera, o gli umori che hanno determinato la forma, cercare l’idea-forte che le ha generate, sarà arduo.
A Riva piaceva farsi interrogare ma chi scrive si limitava a compiacersi della bellezza dell’opera, della forma, o al massimo ad azzardare qualche sensata critica o considerazione chiedendo al massimo: “E' già finito questo pezzo?”….
I titoli, a loro volta, delle opere che abbiamo definito seriali, a partire dalle “Arfalle”, sono molto strani e bisognosi di spiegazione: sono astratti o derivazione-deformazione-mutilazione di parole esistenti, un lessico particolare, un po’ enigmatico e inventato in cui risiede certamente l’eco di qualche significato simbolico.
A lui piaceva farsi interrogare; a qualcuno avrà spiegato il titolo e il significato dell’opera, ma anche gli piaceva dare risposte ambigue: erano quasi sempre risposte sconcertanti, date con quel suo sorriso sornione che descrive così bene in una sua intervista Claudia Rancati: “ ‘Sa, io ormai non ho più nessun rapporto con la scultura’. La frase non arriva subito, ma dopo una buona mezz’ora di conversazione all’insegna dell’amarcord. E scivola nel discorso di soppiatto, pronunciata però con solennità, con il tono sibillino di una rivelazione. Da dietro gli occhi spiritati lui spia la tua reazione, ti scruta, vuole vedere se ti scomponi, se resti disorientato. Sa che le sue parole e i suoi gesti hanno alto potere suggestivo e ne calibra ad arte l’effetto”.